OSSERVATORIO


 

Osservare, descrivere, riflettere. Tre fasi che in maniera analitica, gli etnografi, usano per studiare le popolazioni poco conosciute. Ma cosa si intende con la parola osservare? Non un semplice guardare, ma un atto intenzionale, un mettere a fuoco per cercare di “serbare”, cioè registrare ciò che si ritiene significativo, per poterci tornare sopra e riflettere.

Ed è proprio partendo da questa premessa e prendendo in prestito questo approccio di stampo etnografico che, grazie alla collaborazione del Teatro dei 25, si costituisce “L’osservatorio”, uno strumento metaforico, attento a monitorare una realtà poco nota del panorama teatrale bolognese, quella dei luoghi non istituzionali, autosufficienti, fucine vulcaniche di creatività e di visioni, che caratterizzano un sottobosco fertile ma spesso nascosto come quello dei cosìddetti Teatri Off.

Un percorso che nasce per stimolare la riflessione sulla scena contemporanea del territorio bolognese e sugli spettacoli, che non saranno solo una vetrina, ma un’occasione per creare una rete tra gli artisti che vedremo protagonisti all’interno del progetto di Lara Riccio, “L’antropologia del femminile come processo di integrazione nell’arte”, per il nuovo palinsesto teatrale “Le drammaturgie della Zebra” promosso dal Teatro dei 25.

Un monitoraggio “sul campo” che non solo interesserà la sfera attoriale e relative performance, ma anche lo spettatore, eterogeneo, per comunità o genere, evidenziando così come il linguaggio teatrale, per sua stessa natura, necessita e si nutre di diversità. Una riflessione sul modo in cui il territorio bolognese risponde al richiamo delle produzioni sperimentali, di quel teatro, come scriveva Brecht, in cui dal punto di vista tecnico il <<contenuto>> si è mutato in elemento autonomo verso il quale testo, musica e immagini <<prendono posizione>>, per il fatto che rinunciano a creare illusioni. Ed è dalla messa in discussione del contenuto teatrale che si invita anche lo spettatore a prendere posizione, poiché il teatro ha bisogno di spettatori di senso critico che non subiscono l’opera ma che ne possono godere della funzione sociale del Teatro.

 

L'osservatorio dell'edizione 2019 ottobre - dicembre de "Le drammaturgie della zebra - L'antropologia del femminile" è curato da Lara Riccio in collaborazione con Serenella Panfalone che si occuperà di redigere i testi critici su ogni spettacolo. 

 

 

 

 


Osservatorio #1

Il corpo prima - 11 e 12 ottobre

 

Lo spettacolo si apre con un assolo, un corpo inerme in attesa di risvegliarsi. E così dal buio in cui è immerso, lentamente e ritmato da una musica martellante il corpo, con un susseguirsi di movimenti scossi e percussivi, riemerge, come una presa di coscienza della possibilità di rinascita.

Il corpo prima è uno spettacolo, fatto di gesti, semplice nella sua nudità, caratterizzato dal minimalismo dei movimenti delle quattro giovani danzatrici. La ricerca del gesto semplice ma comunicativo, è cadenzato da effetti di luci e un tappeto sonoro fatto di ticchettii, sospiri, una nenia leggera e musica tecnologica. 

Il corpo prima ci racconta, attraverso la gestualità iconica, del femminile e della sua condizione esistenziale. lI movimento, canale dei corpi danzanti, si svela crudo e nevrotico, perpetuato in una coreografia inquieta e attuale, concentrato tra la creazione di schemi e la loro rottura. Nel rituale si abbattono le differenze tra il corpo fisico e il corpo sociale. Il movimento diventa così sovversivo, catartico, liberatorio. Sono corpi che, attingono da gesti rituali, si trasformano continuamente, assumono posture di animali fieri e dominanti o pose plastiche tipiche di una marionetta. Alternando sequenze corali, duetti ed altre solitarie, le danzatrici evocano dinamiche di dominio e sottomissione. Il loro è un mix di solitudine e complicità, di ribellione e di lotta.

 

Il corpo prima nasce a sostegno del macro progetto GenerAzioni - 3° edizione a cura dell’associazione Selene Centro Studi EkoDanza. 


Osservatorio #2

'A mulletta - 25 ottobre

 

Una scena minimalista caratterizza lo spettacolo, nessun orpello decorativo eccetto Lucrezia. E dal degrado di una discarica, sul ciglio della strada Lucrezia, interpretata da Francesco Bruno, un trans che non ha ancora ultimato il suo percorso e costretto a prostituirsi per vivere, si racconta. Il detrito, lo scarto, diventa il filo rosso che lega tutta la storia e diventa metafora della vita di Lucrezia che lotta per la sua libertà di essere, che oscilla tra l’utile e l’inutile, il nuovo e il vecchio, come emblema della filosofia del pruvammu e jettammu. 

Nel plot scritto da Pasquale Faraco, come in una sceneggiata meroliana, Lucrezia declama l’amore, l'onore, la passione e la gelosia, la lotta tra il bene e il male, i tradimenti e i rapporti parentali. 

A mulletta, il coltello a serramanico da guapperia, è lo strumento di una tragedia sfiorata, in cui il tradimento e la perdita dell’onore rendono protagonisti isso, essa e o’malamente. Una sceneggiata che segna, per Lucrezia, l’ennesima privazione di qualcuno di cui avere cura e da cui ricevere cura. A mulletta pronta a scattare, a squarciare, a spargere sangue, diventa quindi il mezzo simbolico delle ferite dell’anima di Lucrezia. 

Isso, essa e o’malamente, non sono altro che etichette, nomi, ruoli ben definiti, fantasmi sul palcoscenico della vita, da cui Lucrezia rifugge in una costante ricerca del sé al di là della maschera. 

A mulletta, curata da AnimaliaTeatro per la regia di Danilo De Summa, è il ritratto tragicomico della società, dei problemi reali, vissuti nelle strade e considerati ancora tabù. La spazzatura, come rumore di fondo, un accumulo di oggetti come raccolta di linguaggi sulla condizione umana, è il residuo di tutte le storie già vissute, ma a anche punto di partenza per altrettante da vivere. 

 

Di Pasquale Faraco, con Francesco Bruno, per la regia di Danilo De Summa. 


Osservatorio #3

La Via del Ricamo - 9 novembre

 

Il presenta che racconta il passato, inizia così, dal foyer del teatro, la narrazione che Fabiana Giordano, introduce allo spettatore. 

Con un monologo ricco di flashback e in uno spazio scenico adorno di nastri e merletti, appesi ai fili di un grande telaio, Maria Grazia Ghetti, scandisce il ritmo e porge idealmente voce a tutte quelle mani, dotate di ago e determinazione, che hanno dato vita alla storica sezione merletti e ricami della società Aemilia Ars. Un monologo che diventa racconto corale, fatto di suoni e di voci, un avvitamento tra il passato e il presente. Un tappeto musicale che, scandendo movimenti coreografati e presenza verbale, è in grado di parlare a pubblici diversi. Uno spettacolo che con ironia pantomimica compone situazioni reali e oniriche, che le due attrici intridono di dinamica relazionale e che condensano occasioni, precedenti o presenti, a legare i protagonisti. 

Uno spettacolo creato da donne e che parla di donne, le registe Fabiana Giordano e Mila Marchesini,  attraverso una lingua diretta, semplice ed efficacissima, portano in scena un viaggio evocativo, un omaggio ad una vivace Bologna, centro di diffusione di un artigianato industriale femminile, che ancora oggi tramite un’opera instancabile di trasmissione tra le generazioni porta avanti la tradizione del merletto Aemilia Ars. 

 

Con Maria Grazia Ghetti e Fabiana Giordano, per la regia e drammaturgia di Mila Marchesini e Fabiana Giordano.

 


Osservatorio #4

Memorie di una signora perbene - 22 e 23 novembre

 

1968, Parigi si sveglia al suono di Il est cinq heures, Paris s’éveille di Jacques Dutronc. 

Agata Marchi, nei panni di una dirigente d’azienda e madre di un’adolescente che non riesce a comprendere, con un monologo che fila nervoso, intervallato da brevi intermezzi canori, racconta il dramma del vedersi vivere, in una forma di narcisismo tragico. Una madre che intrappolata in una vita fatta di routine e convenzioni borghesi esprime la sua rabbia e frustrazione nei confronti di una Figlia adolescente, indolente, goffa e senza scopi nella vita. La narrazione prende la forma di un memoriale, un diario metaforico su cui la protagonista ne annota lo stato d’animo in relazione alle vicende riguardanti la Figlia e le subdole strategie su cui rimugina per liberarsi di quest’ultima. 

Una scrittura che trae liberamente ispirazione dalla novella, Scomparsa di un uomo lodevole, di Gianni Celati, e che trova nel teatro sotto la regia e la cura nell’adattamento drammaturgico di Edoardo Pitrè ed Agata Marchi, il suo spazio abitativo. 

Interessanti i riferimenti religiosi, dall’identificazione della madre con l’Abramo biblico come a cercare un sostegno per il suo obiettivo, al canto liberatorio di Wade in the Water (Wade in de water, Wade in de water, children…) che, con cadenza mantrica e sarcasticamente, la Marchi intona come fosse una preghiera.

Curiose le sovrapposizioni cinematografiche che il regista ha scelto di proiettare durante la recitazione, anche se in totale assenza di linearità. Filmati analogici in bianco e nero, immagini documentarie e di finzione, che si insinuano sulla scena come rapidi flash e che permettono di moltiplicare i punti di vista dello spettatore, ma non aggiungono niente al già ben costruito monologo della protagonista. 

Il finale didascalico, che riprende la scrittura di Celati, in cui la donna decide di darsi alla fuga verso un’alpe serena, viene qui miscelato dal regista con richiami cinematografici tipicamente di stampo Lynchiano, come le due bizzarre figure che calcano la scena indossando una maschera dal volto di  mucca inespressiva, inoltrando così lo spettatore in una dimensione surreale. Una maschera che indossa un’altra maschera, come a voler dire che dietro le apparenze ci sono altre apparenze. 

Memoria di una signora per bene risulta uno spettacolo molto attuale, i cui temi del dramma del vedersi vivere, del relativismo dei valori e delle situazioni, riflettono quella che oggi è la condizione odierna dell’uomo. 

 

Di Derive Teatro, con Agata Marchi, Nicolò Caldani e Francesco La Mazza per la regia di Edoardo Pitrè. 


Osservatorio #5 

Cosmogonia. Suoni da un mondo ipotetico - 7 dicembre

 

Vibrante di meraviglia, di richiami nostalgici e di suoni ancestrali, ecco come potremmo definire la performance, Cosmogonia-Suoni da un mondo ipotetico, portata in scena dalla polistrumentista Stefania Megàle. Cosmogonia è, il passaggio dal pre-essere all’essere, un racconto sonoro dai forti richiami atavici in cui ad essere protagonista è la figura del femminile, madre, terra, natura, ventre fecondo di vita, generatrice e dispensatrice di ogni cosa. 

Il suono, dal suolo in cui l’artista ha disposto gli strumenti musicali, dalle radici, prende forma e si eleva fino divenire parola evocativa. 

Una performance ipnotica, in cui la Megàle mescola fluidamente il cantato al recitato e le cui melodie e fraseggi emessi dal sassofono sembrano arrivare dagli anfratti più reconditi, nascosti nel profondo dell’artista, e trasmessi al pubblico con una maestria elegante e fiera, malinconica e avvolgente. 

Uno spettacolo poetico, in cui lo spettatore viene condotto in un mondo di suoni, gesti, e parole, che raccontano la storia, la lotta e la forza di una generazione di donne resistenti. Cosmogonia è un progetto di live looping ben riuscito, l’elettronica delicata riesce a creare un tappeto sonoro frammentato e ricomposto, creando un lungo flusso sonoro che disperde l’orecchio e la mente in un’atmosfera onirica, che l’artista come one woman band completa in modo eccellente con la sua splendida voce. 

Una performance che nasce da un progetto molto interessante, da seguire con buone prospettive per un futuro di ulteriori esplorazioni sonore da parte dell’artista. 

 

Di e con Stefania Megàle.